La metropoli multietnica e la ricchezza culturale
Martha Perez Flores ha uno sguardo fiero e profondo mentre indossa il tradizionale abito da sposa della Sardegna meridionale. È nata in un’isola Martha. Quell’isola però non è la Sardegna ma Cuba eppure lei si sente sarda ormai da tanti anni, da quando, per la precisione, ha deciso di trasferirsi a Cagliari dove gestisce un locale tutto suo.
In questi giorni Martha si è guadagnata una popolarità inaspettata sui social, soprattutto per quella foto scattata da Sandrino Ulleri nell’ambito del progetto Tradizione e Innovazione che ha inaugurato il 20 aprile al Pablo Caffè di Cagliari ed è visitabile fino a giugno. L’immagine, rilanciata dalla pagina facebook Sa Bellesa Sarda, ha infatti alimentato un articolato dibattito in rete attorno al tema del multiculturalismo.
Mi è così tornata in mente una mostra di Andrea Branzi che ho visitato l’anno scorso alla triennale di Milano e dal titolo inequivocabile: La Metropoli Multietnica.

La metropoli multietnica

La metropoli multietnica
Quando una mostra ti spinge non solo a osservare semplici installazioni o accostamenti di opere e frasi ma a riflettere e a porti domande significa che ha lasciato un segno.
Per questo, mi ero riproposto fin da subito di scriverci sopra un pezzo ma nonostante le buone intenzioni non ho mai trovato il tempo e l’ispirazione giusta.

La metropoli multietnica
Etnie in transito tra migrazioni e multiculturalismo
Poi è scoppiato il caso di Martha e di recente, guarda caso, mi è capitato di leggere alcuni libri sul tema delle migrazioni e del multiculturalismo.
Tutti elementi che mi hanno spinto a riprendere in mano quelle foto scattate a Milano e buttar giù due righe sperando di seguire una traccia sensata.

La metropoli multietnica

La metropoli multietnica
Il punto di partenza della mia analisi è la Sardegna, la stessa Sardegna mia e di Martha.
Come sappiamo, la nostra isola, anche per via della sua posizione di centralità nel Mediterraneo, è da sempre meta di traffici, scambi commerciali e terra di conquista.
La Sardegna ha una storia multiculturale molto più antica di quanto si possa pensare.
Sono tante le culture con cui è entrata in contatto nel corso dei secoli: dai fenici ai cartaginesi, dai romani ai vandali, dai bizantini ai musulmani, passando per le influenze pisane e genovesi, restando a lungo sotto la dominazione catalana e aragonese, fino alla “fusione perfetta” con il Piemonte. Ciascuno di questi popoli, nel suo transito, ha lasciato segni che, stratificandosi, hanno contribuito a conformare l’attuale patrimonio culturale isolano.
Le tracce di queste contaminazioni si scorgono nella lingua, nei tratti somatici, negli usi e costumi oltre che nel carattere degli abitanti.
Emblematiche e quanto mai attuali risuonano le parole della scrittrice nuorese Grazia Deledda:
“Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi. Siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese. Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo, lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto. Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare. Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta. Noi siamo sardi”.
Una mescolanza di culture che, come mille rivoli, confluiscono in un unico fiume tradendo una matrice multiculturale e svelando le tracce di un passato lontano.
A questo proposito mi saltano subito alla mente i versi di Giancarlo Cao quando parla di Cagliari nel suo bel libro Karales (2001, p.23):
“C’era da immaginarlo tanto mare. Ma forse non c’era da aspettarsi di incontrare, a pochi passi dal centro cittadino, un borgo defilato e indifferente – si direbbe – ai ritmi ed ai clamori della calca urbana.
C’è un altro tipo di clamore, qui: quel mormorio vivace e festaiolo da suk nordafricano, dove però le voci sembrano invocare con la stessa devozione quel pesce da cortile pescato sotto casa e il martire cristiano Sant’Elia, di stanza nella zona.
Un mormorio e un colore, un’atmosfera che richiama paesi più lontani, e che dà come l’impressione di trovarsi a passeggiare tra i fotogrammi di un documentario.
È casomai nei volti della gente e nell’aspetto delle mercanzie, che ci si accorge di essere in Sardegna. C’è poco da sbagliare.
Un movimento di cose e persone – si sente dire in giro di frequente – in cui questa città scopre il suo volto di avamposto di confine.
Una benedizione, per alcuni. Per altri di condanna.”

La metropoli multietnica

La metropoli multietnica
La metropoli multietnica e i nuovi nomadismi
I tratti della multietnicità si scorgono ovunque, nei suoni, negli odori, per le strade e nei colori.
Ma da dove nasce questa multiculturalità se non dalle migrazioni? Annamaria Baldussi nel suo saggio Asia Mobile. Luoghi e percorsi di dinamiche migratorie (2007, pp.145-296) guarda al mondo delle migrazioni sotto numerosi aspetti, partendo dall’assunto che “ogni popolazione non è soltanto un fatto ‘culturale’ o una questione antropologica, ma anche visioni del mondo, della natura, della cultura scientifica e tecnologica. La stessa appartenenza etnico-linguistico-religiosa risulta essere un aspetto del fenomeno” e la migrazione in sé non è che una sottocategoria del concetto più generale di movimento.
Migrare significa dunque spostarsi, cambiare luogo per lunghi periodi di tempo.
Il tempo e lo spazio diventano le discriminanti di un fenomeno che non va confuso con la semplice ‘circolazione’.
Migrare comporta una complessità di elementi e fattori che hanno a che fare con le radici, le relazioni, vecchie e nuove, le tradizioni, l’istruzione e sempre di più con i sistemi di comunicazione.

La metropoli multietnica
Se guardiamo anche ai nuovi migranti, quelli che sempre più numerosi fuggono da guerre e situazioni critiche, non possiamo non notare quanto anch’essi siano muniti di telefoni e smartphone.
Spesso visti come oggetti superflui, forse perché non commestibili (Sic!), questi strumenti tecnologici grazie a una qualsiasi connessione ad internet rappresentano talvolta l’unico trait d-union con un passato che, lungi dall’essere morto, conserva ancora il volto e soprattutto la voce di una mamma, di una sorella o di un fratello che non sono potuti fuggire dall’inferno.
Non un vezzo, come i fomentatori d’odio vorrebbero far credere, ma una vera e propria necessità. Quando l’ingegner De Felice nel 2007 ha elaborato la piramide dei bisogni tecnologici non a caso ha collocato il bisogno di connessione sullo stesso piano dei bisogni primari di Maslow.
Comunicare con chi sta lontano, mantenere un legame, ravvivare la speranza di poter riabbracciare i propri cari fa parte della natura umana e di quella del migrante in particolare. Sono solo cambiati i mezzi a disposizione. Per farvi un’idea, vi consiglio di dare una lettura veloce alle lettere spedite dai sedilesi emigrati in Brasile ai primi del Novecento, costretti a vivere in condizioni a dir poco disdicevoli e di precarietà. Le trovate a questo link.

La metropoli multietnica
Tornando alla metropoli multietnica di Branzi, quale miglior palcoscenico per i nuovi nomadismi e le migrazioni di ieri e di oggi che puntano alle città, da sempre considerate motori dello sviluppo, centri di ricchezza, cultura, ma anche sedi di problematiche, difficoltà ed esclusione sociale dove talvolta è difficile convivere?
In un’epoca contrassegnata dall’iperconsumismo, dalla rarefattezza delle relazioni e dalle distanze, affinchè città e regioni continuino ad essere luoghi di vita, significati, cultura e valori, occorre prima di tutto restituire senso all’identità, individuale e collettiva, al locale in funzione e non in antitesi rispetto al globale, alla partecipazione e all’inclusione sociale. Solo così potremmo continuare a parlare, e chissà con toni migliori, di città e regioni multietniche come complessi di valori capaci di arricchire e non di impoverire o minacciare il nostro piccolo mondo, dove la diversità continua a rappresentare un valore aggiunto! Ecco che quell’immagine di Martha, con indosso un abito da sposa campidanese, che la fa sembrare un’antica sacerdotessa, acquista ancora più valore e significati profondi.

Ph Sandrino Ulleri/Andrea Meloni . Martha. La cubana col costume campidanese