
Nubi sullo stagno di Platamona
Benedetta sia la pioggia
Quest’anno, in Sardegna, l’inverno ha fatto il pazzo! Il tempo, particolarmente mite, si è caratterizzato per una esasperante penuria d’acqua.
Solamente negli ultimi giorni di un insolito febbraio, le piogge sono finalmente arrivate!
Meglio tardi che mai, verrebbe da esclamare!
Sia che abbiano sortito effetto le tante preghiere rivolte da ogni dove alle più svariate divinità, sia che più semplicemente la natura abbia deciso di riprendere in mano le redini della situazione, l’importante è che la stagione si sia decisa a riappropriarsi del ruolo che le è proprio.
L’annata siccitosa mi ha fatto tornare alla mente alcuni versi di un libro, letto anni fa e che consiglio: La mia Africa, della scrittrice danese Karen Blixen, da cui è tratto anche l’omonimo film diretto da Sydney Pollack, con Meryl Streep, Robert Redfort e Klaus Maria Brandauer.
Nel romanzo il tema della pioggia, elemento provvidenziale per il continente africano, viene trattato in più riprese.

La mia Africa (Pollack, 1985)
Sono andato a cercare di nuovo quel testo, proprio per riproporvi alcuni passaggi fortemente carichi di poesia e significato. Gli spunti di riflessione sono molteplici. È interessante notare come l’attesa speranzosa della pioggia, da parte dei popoli, sia un fenomeno universale che oltrepassa il tempo e scavalca i meridiani e i paralleli. È altrettanto curioso osservare come ci si renda conto dell’importanza di qualcosa, la pioggia in questo caso, specialmente nel momento in cui la stessa viene a mancare.
“Un anno le grandi piogge non vennero.
È un’esperienza tremenda, spaventosa: il coltivatore che l’ha vissuta non la dimentica. Dopo anni, lontano dall’Africa, nel clima umido dei paesi del nord, al rumore di uno scroscio improvviso di pioggia, la notte, ha un soprassalto improvviso, l’impulso di gridare: “Finalmente, finalmente!”.
Di solito le grandi piogge cominciavano l’ultima settimana di marzo e continuavano per tutta la prima metà di giugno. Fino ad allora il mondo diventava ogni giorno più caldo ed arso che in Europa, quando sta per scoppiare il temporale.
Dall’altra parte del fiume, in quel periodo, i miei vicini, i masai, davano fuoco alle pianure aride come scorze secche, per poter avere erba nuova e fresca, nei pascoli, alle prime piogge: l’aria danzava alla potente conflagrazione. Il fumo avanzava sull’erba, in lunghi strati grigi che prendevano i colori dell’arcobaleno; sui campi giungevano il caldo e l’odore di bruciato come da una fornace.
Nubi gigantesche si addensavano, per poi dissolversi: un acquazzone lontano tracciava all’orizzonte una striscia obliqua di azzurro.
Il mondo non pensava che ad una sola cosa.
Poi, un pomeriggio, proprio prima del tramonto, pareva che il paesaggio ci si stringesse intorno, le colline si avvicinavano, vigorose e piene di significato col loro verde e il loro azzurro limpido e penetrante. Due ore dopo, uscendo, si scopriva che le stelle erano scomparse e l’aria della notte, morbida e fonda, era gravida di benessere.
Il rombo precipitoso che cresceva rapidamente, lassù, sopra le nostre teste, era il vento tra gli alberi della foresta – e non la pioggia. Quello che correva strisciando lungo la terra era il vento tra gli arbusti e l’erba folta – e non la pioggia. Quello che frusciava e tambureggiava contro la terra era il vento nei campi di mais (allora somigliava talmente alla pioggia che ogni volta ci si lasciava ingannare, quasi con gioia, come quando inizia finalmente la rappresentazione di un dramma che da molto tempo volevamo veder recitato) – e non la pioggia.
Ma quando la terra rispondeva con un ruggito fertile e profondo, come una cassa armonica, e il mondo cantava intorno a noi in tutte le sue dimensioni, in alto e in basso – quella era la pioggia.
Era come tornare al mare dopo tanto tempo, come l’abbraccio di un amante“.
(Karen Blixen, La mia Africa, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 40-41)